10 aprile 2021
Citta è un termine ‘ombrello’ del complesso mentale, indica in senso generale visione e/o coscienza, è l’abilità che ha la prakṛti di vedere con ‘l’occhio della mente’. In altre parole citta diventa cosciente e consapevole di tutto ciò che accade nel complesso mentale chiamato antaḥkaraṇa:
Manas (mente) La facoltà mentale che elabora le impressioni sensoriali inviate dai recettori sensoriali, sintetizzandole in concetti e immagini;
Ahaṁkāra (la dimensione identitaria) il principio di individuazione e di appropriazione;
Buddhi (intelletto) facoltà mentale di una intelligenza creativa, intuitiva e potenzialmente discriminatrice.
Tutte le differenti e numerose attività espresse da queste diversificate facoltà, che prenderemo in considerazione nei prossimi articoli, sono inevitabilmente captate da citta. Nello yoga e nel tantrismo citta non viene classificato nell’elenco dei tattva, tuttavia è parte integrante dello strumento interiore. Nell’uomo comune citta è connesso con le vṛtti al punto tale che spesso viene indicato con un unico termine, cittavṛtti, perché effettivamente le vṛtti si rispecchiano intimamente in citta, fino a diventare una sola cosa e i due sembrare inscindibili. In quel caso: ‘le vṛtti sono il citta e il citta sono le vṛtti’. È comune osservare che molti autori utilizzano il termine manas o citta in modo indistinto. È anche vero che il termine manas, è utilizzato come termine generico e comprende il raggruppamento delle tre suddivisioni del complesso mentale adottate dai Tattva o elementi costitutivi sopracitati. Ma quando si inizia un processo graduale di risveglio, ci si rende conto che citta potrebbe avere una sua autonomia, entrare in un isolamento. Non a caso l’ultimo capitolo dei sūtra di Patañjali prende il nome di Kaivalya, isolamento: Si tratta proprio dell’isolamento di citta da tutti gli altri elementi costitutivi della prakṛti. Nell’enciclopedia dello Yoga di Stefano Piano, pur non rientrando nell’elenco dei tattva il termine citta viene indicato come “l’evoluto più raffinato della prakṛti (natura) il più vicino formalmente al puruṣa (spirito), ma ontologicamente assai diverso. La consapevolezza della distinzione fra citta e puruṣa costituisce il fine ultimo del Sāṃkhya e poi anche dello Yoga-darśana”. Nel vedānta, invece, citta ha un suo posto preciso e viene considerato come una delle quattro facoltà dell’org ano interno antaḥkaraṇa oltre a buddhi, ahaṁkāra e manas. A me piace definirlo l’occhio della mente, anche se non riscontro questa definizione in nessuna traduzione. In base alla mia esperienza personale, immagino citta essere la facoltà del terzo occhio bhrūmadhya, quando questo diventa attivo e si libera di tutte le interferenze cicliche dell’attività del manas.
COME PATAÑJALI NE PARLA
Patañjali dedica alcuni sūtra a citta definendo lo yoga come la disciplina capace di liberare definitivamente citta dal turbinio delle vṛtti. Quindi citta è un perno attorno al quale ruota l’intero processo dello yoga, al punto tale, che quando tutto si è fermato, persino i comuni processi mentali abitudinari, citta emerge in uno stato di sola presenza. Viene utilizzato quasi sempre quando si esprime la funzione mentale connessa prevalentemente alla semplice visione. Citta è una facoltà fondamentale capace di divenire cosciente di tutti i contenuti mentali. I contenuti mentali che invadono citta sono: la memoria, il ruolo dell’ego, la normale attività della mente manas comunemente reattiva nei confronti degli stimoli sensoriali, principale promotore delle vṛtti, e l’intelligenza creativa e intuitiva, buddhi. Citta viene evocato da Patañjali ventidue volte e nel quarto capitolo citta viene considerato il vero protagonista indisturbato della scena avendo raggiunto lo stato di isolamento. Il termine, manas, compare in tutto il testo tre sole volte I.35; II.53 e III.49 e le tre volte viene utilizzato in modo chiaro ed esplicito in un rapporto interattivo con i sensi e nel III.49 viene citato come un eccellente strumento di gestione dei suoi organi motori e sensoriali, al punto tale da permettersi di spostarsi velocemente oltre il tempo e lo spazio.
LA RELAZIONE FRA PURUŚA E PRAKṚTI
Fra il principio del non cambiamento e il principio del divenire
Al sūtra IV.17 e IV.18 vengono riconosciute al Draṣṭṛ, il Sé due facoltà:
-l’una quando, nel sūtra IV.17, in uno stato di totale purezza, citta, viene colorato, influenzato (uparāga) dal Draṣṭṛ, il Sé. Esattamente come un cristallo che appare colorato dall’oggetto che riflette. In altre parole, citta, raggiungendo le alte vette realizzative manifesta uno stato permanente di vairāgya (distacco) che è un derivato di vi-rāga letteralmente “senza il rosso”. È risaputo che il rosso è il colore della passione e quindi si potrebbe tradurre impassibilità, libero dalla passione. È come se citta raggiunto lo stato di vairāgya nei confronti delle vṛtti, entrasse in uno stato di vero silenzio, tale da rendersi conto della presenza del Sé e venisse coinvolto da uparāga. Ancora una volta si ritrova la componente rāga, la colorazione, l’elevata e avvolgente passione che arriva dal Sé, come per dire che la vita, anche verso l’ultima realtà esistenziale, è una dolce, lieve, sottile e romantica storia d’amore.
Il sapere, il vedere, l’osservazione sono la vera e unica natura del draṣṭā, del puruṣa. La realtà oggettiva vastu diventa il conosciuto, mentre il conoscitore Jñāta e sempre il conosciuto ajñāta. La cosa meravigliosa che Patañjali ci rivela in questo sūtra è che la citi śakti, la vera natura, l’energia della manifestazione, assume la forma del draṣṭā e del dṛśyam, diventa sia il conoscitore, sia il conosciuto, perché vi è una sottile passione cosmica esistenziale che li mette in relazione.
-l’altra facoltà che si rivela, sempre in uno stato di totale purezza, si verifica quando citta, viene pervaso dalla seconda facoltà del Draṣṭṛ direi da una energia onnipervadente, l’energia della permeabilità, il principio del permeare (prabhu) pur mantenendo la principale caratteristica del suo stato, l’immutabilità.
L’insistenza di Patañjali nel sūtra IV.23 draṣṭṛdṛśyauparakta cittaṃ sarvārtam (termine già trattato nel precedente capoverso), derivante da uparāga, testimonia il grande valore che viene attribuito a citta racchiuso nel termine sopra citato uparākta, ovvero la vera e tangibile manifestazione del Sé che ha la facoltà di colorare proprio citta e solo citta. Questo ci fa capire che citta sia considerato una sostanza mentale evoluta al punto tale che, una volta purificato dalle vṛtti, possa avere la capacità di ricevere persino i riflessi tangibili del Sé, riflessi sempre esistiti, ma nascosti dalle vṛtti. Esattamente come quando, turbati da tanti problemi di vita quotidiana, non ci rendiamo conto neppure delle cose più ovvie come il cielo blu, il sole che illumina e riscalda o la luna che splende nel cielo. In altre parole, Patañjali attribuisce a citta e solo a citta la facoltà di lasciarsi travolgere dalla presenza del puruṣa in una unione addirittura dolcemente passionale. Da qui si vede come citta, inizialmente condizionato dall’interazione reattiva del manas con tutti gli strumenti sensoriali, diventa anch’esso parte integrante del movimento ‘vrttico’ e riesce solo se ha successo, dopo una lunga e intensa disciplina, ad appianare la relazione e il rapporto fra manas e gli indriya, fino a raggiungere il proprio isolamento ed ottenere così l’opportunità di scoprire di essere illuminato dalla passione derivante da una energia divina travolgente e onnicomprensiva (uparāga e prabhu).
Immagine, Viandante sul mare di nebbia, Caspar David Friedrich, 1818
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