04 giugno 2022
Cerco di entrare in medias res, ormai, chiunque di voi abbia un minimo di confidenza con le mie modalità sa che negli ultimi anni ho cominciato a preparare dei PowerPoint per tutti i piccoli interventi che ho fatto. Il tema del convegno, che è sempre molto interessante, questa volta è particolarmente interessante e se posso dire particolarmente tecnico, tutt'altro che semplice. Proverò a mostrarvi un percorso che ovviamente nelle mie vesti non può essere che testuale. In primis rimarrò sui testi cercando di mostrarvi non solo quello che appare in superficie, in Yogasūtra nella fattispecie, ma entrando ulteriormente in alcuni non detti che si palesano attraverso un’analisi meno superficiale di Yogasūtra. Eccoci qua.
Questo è un po’ la carta di identità di questo mio breve intervento di oggi. Il mio percorso è quasi esclusivamente testuale con alcune ipotesi finali. Cerco di rimanere in Yogasūtra in primis, sebbene, come noi sappiamo benissimo, Yogasūtra, per quanto lampante in certi momenti, per quanto brillante, talvolta è un po’ avaro. È un sūtra, è un testo stringato. Non ci dice più di tanto, pertanto noi dovremo, per forza di cose, fare delle incursioni nei commenti e poi rifletteremo un po’ perché saṃyama è posizionato in un certo luogo di Yogasūtra. Cerchiamo di capire un po’ il significato letterale e soprattutto la funzione semantica, sintattica e se volete di posizione topologica di questo termine particolare. Entriamo subito, dalla prossima slide nel significato etimologico. Certo, l’abbiamo detto tante volte insieme, così come in occidente la parte del leone la fanno le scienze matematiche e geometriche, la stessa parte viene recitata in India dalle scienze linguistiche. Quindi cerchiamo di vedere dal punto di vista linguistico che cosa può voler dire saṃyama. Ci accorgeremo subito che il campo semantico è molto vasto. Poi cerchiamo subito dopo di vedere dov’è posizionato all’interno di Yogasūtra. Certo noi ce l’abbiamo lì nel quarto sūtra del terzo pāda. Però vedremo come il suo posizionamento sia tutt’altro che casuale. Certo non serve mica Gianni Pellegrini a dirvelo, tuttavia cerchiamo di vedere che all’interno della struttura del reticolo di Yogasūtra è assolutamente fondante. Poi cerchiamo di vedere un’altra questione: quell’idea di convergenza che è uno dei significati della parola saṃyama. L’idea di convergenza è un’idea che non si ritrova, usa, percepisce, esclusivamente nel sūtra 3.4 bensì è un’idea che pervade l’intero corpo dell’opera di Patañjali. Ok? Ma non solo, vedremo che ci sono molteplici convergenze. Questo, se volete, è il non detto di questo titolo un po’ scherzoso, su saṃyama. Cercheremo di capire che cos’è saṃyama, nel regno delle ipotesi? Che l’obiettivo ultimo è il percorso costantemente seguito di coerenza di Patañjali, l’idea centrale di Patañjali, è fondamentalmente fondata, scusate la cacofonia, su ekāgratā, su questa direzionalità monofocale che si concretizzerà effettivamente. Il frutto maturo di ekāgratā sarà, tra gli altri, anche saṃyama. Ora andiamo passo per passo. In alcuni loci sarò più schematico, in altri loci leggermente più analitico.
Ora la parola saṃyama. Innanzitutto quando parliamo di saṃyama, questo è un sostantivo maschile, il saṃyama. Come spessissimo accade nel mondo sanscrito è formato da vari prefissi, suffissi, infissi, con una radice centrale che ne dà il significato primario. Qui vediamo che sam è un prefisso, un preverbio. Ha tantissimi significati ma sam, in primis, significa “con, insieme, completamente, perfettamente, precisamente, in modo unito, intensamente” anche. Questi sono solo alcuni dei significati del prefisso. Insieme al prefisso noi aggiungiamo che cosa? Il significato della radice yam. La radice yam ha molteplici significati primari e molteplici secondari. Noi, anche se siamo meno avvezzi al significato, all’uso di saṃyama che ha un significato molto tecnico, ripeto, tuttavia conosciamo già la parola yama dall’inizio di Yogasūtra, dagli yama, le astensioni. Ora, tenete presente che la parola yama e la radice dunque dalla deriva è già presente nel Ṛgveda, il primissimo documento in una lingua, n un proto sanscrito, una lingua sanscrita arcaicissima, che parla di chi? O mamma mia, è una cosa un po’ particolare, c’è un personaggio ampiamente descritto che si chiama Yama, fatalità. Chi sarebbe Yama? È il primo uomo a morire ed, essendo il primo uomo a morire, è colui che diventa il signore del regno dei morti. Spessissimo nella tradizione esegetica vedica si cerca di capire la parola yama, ossia perché il signore del regno dei morti si chiami così. Quindi si fanno, si provano, varie derivazioni etimologiche e queste sono alcune delle radici da cui si fa derivare la parola yama. Vedete?
Yacch “concedere donare dare”,
yu “separare afferrare, prendere possesso. Vedete dei significati molto ampi;
yam, che è quella che ci interessa di più, “trattenere, bloccare, controllare, frenare”;
yā “andare, muoversi, raggiungere, ottenere”;
yat “sforzarsi, impegnarsi applicarsi” e molte altre.
Dunque se mettiamo insieme i due significati, sam e yam, che cosa abbiamo? Il verbo sam-yam, individua il “tenere insieme, il trattenere, il frenare, il reprimere, il controllare, governare, guidare” che si può usare nel significato primario con i cavalli. Guidare un carro, guidare dei cavalli e dunque, noi lo sappiamo spessissimo nelle Upaniṣad ma anche in qualche modo di rimando nella Bhagavadgītā, noi abbiamo i cavalli che sono rappresentati come gli indriya, come i sensi e viceversa. I sensi che sono rappresentati come cavalli che possono essere docili e che possono essere indocili. Abbiamo anche altri significati: “legare, tenere stretto, chiudere, serrare”, ecc… molti altri. Dunque che cosa vuol dire? Saṃyama può essere utilizzato sia in un contesto più generico, diciamo più ampio e allora può voler dire “il tenere insieme, il contenere, legare, incatenare, coordinare, allineare, compresenza, simultaneità, concordanza, contiguità”. In certi contesti invece ha un significato più tecnico, come nel nostro: “concentrazione interna, controllo sensoriale, esercizio, soppressione anche in certi contesti, convergenza, correlazione, capacità correlativa”. Queste ultime tre accezioni sono quelle che ci interessano più da vicino. Tenete presente che se aprite cinquanta traduzioni di Yogasūtra dal 1848 fino al 2016, penso una delle ultime sia stata fatta, trovate cinquanta traduzioni diverse. Ok? Tenetelo in mente. Noi sappiamo però, come vi dicevo, il significato sul quale dobbiamo concentrarci è un significato, altamente, squisitamente tecnico, perché in Yogasūtra, il significato di saṃyama è unico. Addirittura, mi si permetta, la parola saṃyama è utilizzato in precedenza rispetto a Yogasūtra ma per il significato che sembra avere in Yogasūtra è la prima volta. Ok? In qualche modo noi lo diciamo in un modo un po’ più tecnico, filologicamente, un hapax legomenon semantico, cioè ha un significato che per la prima volta viene usato in modo così specifico. Quindi immaginate la difficoltà nel tradurlo. E non solo, è inserito in un contesto molto preciso; vale a dire che, chiude che cosa? Chiude il percorso degli otto aṅga, chiude il percorso delle otto parti, degli otto gradini, degli otto strumenti per realizzare il metodo. Noi sappiamo, come si diceva, che la prima volta che viene nominato in Yogasūtra è 3.4, nel terzo libro quarto sūtra. L’abbiamo dodici volte, in Yogasūtra stesso, tutte quante nel terzo libro, tutte in vibhūti pāda, il ricorrere della parola saṃyama. Ma tenete presente, essendo la parola saṃyama inserita all’interno del terzo libro, il vibhūti pāda, ciò va certamente considerato, voi vibhūti lo trovate tradotto in molti modi, i poteri meravigliosi, noi lo facciamo in modo un po’ più filosofico, lo traduciamo come una semplice acquisizione. Sono delle acquisizioni, degli effetti, dei frutti, dei risultati che vengono da sé, che emergono di per sé per il fatto che abbiamo praticato lo yoga, dall’attendere al metodo. Ora permettetemi di dire, visto che dobbiamo parlare un minimo del suo posizionamento che non è secondario, permettetemi di ricordarvi com’è fatto molto brevemente Yogasūtra. Noi sappiamo che traduciamo la parola in mille modi, di solito troviamo aforismi sullo yoga, aforismi se vogliamo avventurarci nel tradurre yoga che è cosa tutt’altro che semplice, abbiamo aforismi sulla disciplina. Sarebbe meglio, ultimamente stringhe sul metodo, che è scritto, come dicono gli storici, da un certo Patañjali di cui abbiamo pochissime notizie storiche. Secondo quello che è lo studioso che va per la maggiore sulle questioni di yoga, sulle datazioni di Yogasūtra, che è un certo Philipp André Maas, che ha fatto un’opera enorme, pubblicata nel 2006. Lui sostiene che Yogasūtra, dal punto di vista storico poi dal punto di vista tradizionale è un’altra questione, venne redatto, ed ha delle prove difficilmente controvertibili, in un’epoca che va da 325 al 375 perché soprattutto in alcune parti del primo pāda e in alcune parti del quarto pāda cita dei termini che sono per la prima volta usati, coniati se volete, da un certo Asaṅga, un autore buddhista. Questo autore buddhista, ahimè, la tradizione cinese, lo data precisamente e siamo intorno al 280-320 dc. Quindi abbiamo una datazione dal punto di vista storico, dal punto di vista filologico, sappiamo che sono 195 stringhe, 195 aforismi, 195 sūtra, brevissimi, senza verbo, difficilmente intellegibili se non contestualmente, se non con una glossa. Questi 195 sono più o meno equilibratamente suddivisi, in quattro piedi, in quattro parti, in quattro libri. Il primo, il samādhi pāda, il libro sul samādhi ecc... Tutto quello su chissà che cosa vuol dire davvero samādhi. Il secondo, gli strumenti, cioè i modi per raggiungere l’obiettivo. E poi il terzo che cos’è? Sui poteri, sulle acquisizioni, cioè sui risultati della pratica del metodo. Infine l’obiettivo finale, l’isolamento. L’ultimo libro è kaivalya pāda. Ma non solo. Questo è l’indice. Se noi prendiamo qualsiasi libro di Yogasūtra alla fine vediamo samādhi pāda, sādhanā pāda, vibhūti pāda, kaivalya pāda. Ma all’interno di questo scheletro, di questa segmentazione strutturale, noi abbiamo su per giù, una suddivisione per lo meno in dodici sezioni tematiche. La dichiarazione degli intenti e qui sono 1.1-3, se non si è nella condizione iniziale dove si è. Poi come si arriva al samādhi, i vari tipi di samādhi. Il samādhi con seme, il samādhi senza seme. Poi si entra nella questione dei kleśa. Cosa sono i kleśa? I kleśa sono la malattia. L’umano si rende conto di essere malato. Ricordatevi, lo sappiamo benissimo, il primo passo per andare verso la guarigione è il rendersi conto di essere malati. E dunque Patañjali dice: oh ragazzi, gli umani sono malati, devono uscire da questa condizione e non è una malattia semplicemente del corpo. Se volete parte dal corpo, ma vedendo l’individuo come una composizione olistica cioè, appunto, una compenetrazione di vari elementi. Poi c’è il paradigma medico. Patañjali è un medico e la terapia che egli fornisce sono le otto membra, ecc… Sappiamo che tutti gli otto aṅga, cominciano da 2.29, la lista di tutti quanti, e finiscono in verità a 3.3 poi abbiamo un codazzo che è fino a 3.8. Poi continua tutta un’altra serie di questioni sulle quali non ci soffermiamo ora. All’interno di tutto questo panorama vedete che al numero 8, abbiamo il posizionamento del metodo patañjaliano e l’arrivo del metodo Patañjaliano. Cioè abbiamo saṃyama che è in 3.4 e va assolutamente inteso in modo contestuale. Ricordiamolo, è in apertura di vibhūti pāda, il libro sulle acquisizioni, sui risultati, sui poteri derivanti, sulle potenze derivanti, da che cosa? Da tutti gli atti che abbiamo fatto in precedenza, da tutti i cinque membri del metodo precedente. Ok? Abbiamo quindi il nostro metodo in otto aṅga che si sviluppa, che ha vari momenti, una prima scansione che è di strumenti, mezzi, di cause se volete, che per forza di cosa devono generare degli effetti.
Permettetemi. La prima parte, quella degli strumenti, quella dei sādhana, quella delle cause, la conosciamo tutti, ce la ripetiamo anche sotto la doccia, anche a testa in giù, anche mentre russiamo, yama, niyama, āsana, prāṇāyāma, pratyāhāra, e noi lo sappiamo, voi yogin lo sapete che si perfezionano. Diventano via via sempre più raffinate, sempre più sottili, sempre più prive di sforzo da parte dello yogin quando ci sia in verità, uno sforzo che si prolunga attraverso il tempo. Sono infatti tutto ciò che va perfezionato in lungo tempo con una sorta di impegno, di sforzo dello yogin e sono per questo chiamati, spesso bahiraṅga, aṅga esterni, membri esterni, indiretti, ausiliari, in quanto hanno una funzione, se volete, non immediata, mediata, secondaria rispetto al far venire in essere, al generare quello che è l’obiettivo ultimo, uno degli obiettivi ultimi di Patañjali, che non è l’obiettivo finale ma è il samādhi con seme. Almeno secondo l’interpretazione che viene data dai commentatori. Gli ultimi tre quindi, quali sono? Dhāraṇā, dhyāna e samādhi sono invece dei frutti. Ricordatevi, fino a pratyāhāra siamo in sādhanā, sono strumenti, da dhāraṇā, poi dhyāna e infine samādhi siamo in un altro libro, siamo già nel terzo libro. Sono frutti, sono acquisizioni e via via più sottili, più rarefatte. Infatti cosa dice 3.7, trayam antaraṅgaṃ pūrvebhyaḥ l’insieme dei tre è un membro interno, diretto rispetto ai precedenti, quali? I cinque precedenti. Nonostante, ma questo ci interessa di meno, è un altro argomento per quanto connesso, ovvio. Yogasūtra è un reticolo, non c’è niente di irrilevante. Tutto è rilevante verso un unico obiettivo. Rispetto al samādhi senza seme, rispetto al nirbīja, anche i tre, di questi ultimi parla, dhyāna, samādhi, anche questi tre sono esterni, ma questa è un’altra questione che avrebbe bisogno di un’altra esegesi, che lasciamo per il momento da parte. Comunque la nostra riflessione, invece, parte dai tre aṅga finali, dhāraṇā, dhyāna, samādhi che in verità non sono cose diverse, sono nient’altro che un risultato. Che tipo di risultato? Un risultato, vedete, causato dalla forza di tutti gli aṅga precedenti, yama, niyama, āsana, prāṇāyāma e pratyāhāra. Sono in verità gradi, livelli, momenti, differenti di un unico risultato, di un unico effetto che prende una denominazione collettiva, questa denominazione estremamente tecnica a cui è dedicato il convegno. Permettetemi di ridestarvi, chissà in quanti l’hanno già fatto, ma permettetemi di farlo al mio modo, di che cosa parla Patañjali in questi ultimi tre aṅga deśabandhaś cittasya dhāraṇā. Il trattenimento concentrato, dhāraṇā, è il legarsi di che cosa? Di citta, cittasya a un deśa, a un luogo, a una cosa, a uno specifico momento.
Qui il commento a Yogasūtra. La concentrazione attenta, specifica, penetrante su un unico oggetto del nostro citta che è stato, attraverso l’uso del corpo, attraverso l’uso di astensioni e propensioni, attraverso l’uso del prāṇa, attraverso vari assoggettamenti sensoriali è stato finalmente domato. Quindi abbiamo che cosa? Che cosa ci dice Yogasūtra, quando il citta è concentrato su un unico oggetto, possono essere molteplici, voi lo sapete meglio di me questo, io vi dico quello che dicono alcuni testi principali, sul plesso dell’ombelico, sul loto del cuore, la luce del foro occipitale, la punta del naso, ecc…. Successivamente i commentatori diranno anche sulla divinità suprema, su īśvara ecc… ci sono varie possibilità. Vedete questo 3.1, 3.2 tatra pratyayaikatānatā dhyānam. Tatra vuol dire proprio lì, in quel luogo di cui si parlava, che cos’è? Un flusso continuo di una sola cognizione, di un solo pensiero, in quello stesso luogo, proprio lì. Dhyānam la meditazione, la contemplazione, possiamo tradurla in vari modi. Il prolungamento, ancora più concentrato, ancora più monofocalmente univoco di dhāraṇā, secondo i commentatori, ma anche attraverso il testo di Patañjali, per quanto sintetico, si coglie. Cioè il flusso di un solo pensiero, di una sola cognizione uniforme che non è, bignè, bignè, bignè, inframezzato da nient’altro, pizzette, pizzette, pizzette, no solo bignè, non inframezzato da nessun’altra cognizione e che ha per contenuto, che ha per oggetto, sempre lo stesso oggetto. Quello, quando arriva al massimo suo livello di splendore, tad evā proprio quello tad evārthamātranirbhāsaṃ svarūpaśūnyam iva samādhiḥ il samādhi che cos’è? È quella stessa dhyāna in cui l’apparizione, qui ci sono decine di possibilità di traduzione, l’apparizione dell’ārthamātra, del puro, del semplice così com’è contenuto è come fosse priva di forma propria. Cosa vuol dire questa cosa? È amplissima la possibilità ermeneutica, però permettetemi. Che cos’è il samādhi? È una sorta di dhyāna, di meditazione che ha lo stesso traguardo, è un upgrade come direbbero al giorno d’oggi di dhyāna, il samādhi, laddove che cosa accade? Il contemplato in dhyāna, il contemplatore e il contemplato, il meditante e il meditato, sono ancora in qualche modo separati, pian pianino il contemplato diviene come se fosse privo di una forma separata, perde i confini. E dunque che cosa accade? Il contemplante si compenetra, entra talmente tanto nel contemplato che ormai, liberato da qualsiasi sovrapposizione di pensiero che noi abbiamo potuto imprimere su di esso, diventano un tutt’uno. Ecco, quando questi tre elementi, dhāraṇā, dhyāna, samādhi, questi tre momenti di questo unico processo sono chiamati tecnicamente con un unico nome, saṃyama, convergenza, capacità correlativa, correlazione, che è appunto un termine ombrello. Trayam ekatra saṃyamaḥ unitamente, all’unisono, l’insieme dei tre è saṃyama. Anche i commentatori non si dilungano su questo sūtra 3.4. Il primo grande commentatore, ma anche i successivi, io li ho letti tutti, non entrano più di tanto. Guardate, si dice così, è un termine tecnico. Guardate cosa dice Vyasa che in certi sūtra commenta dieci pagine, qui solo tre righe, siffatto saṃyama è l’insieme dei tre dhāraṇā, dhyāna, samādhi, concentrazione, contemplazione e samādhi. “Si dice saṃyama quando i tre mezzi hanno un unico contenuto, quando questi tre momenti hanno un unico contenuto. Saṃyama è un termine tecnico relativo a questo trittico concentrazione, contemplazione, samādhi.” E ripeto un termine tecnico. I termini tecnici in sanscrito ci fanno perdere i denti a noi sanscritisti perché sembra che vogliano dire una cosa letteralmente ma non letteralmente hanno un significato che è molto più vasto. Poi sappiamo anche Buja, è inutile che lo leggiamo, che ripete più o meno la stessa cosa. Dhāraṇā, dhyāna, samādhi sono il trittico rivolto a un unico contenuto, non è che in dhāraṇā mi concentro sul bignè, poi faccio dhyāna sulle pizzette e infine samādhi mi riempio semplicemente di crema chantilly. No sono tutti quanti sul bignè. Divento un tutt’uno con il bignè, su questo, tutti quanti i commentatori insistono. Per quanto sia tecnico, invece di dire il perché, dicono che è una scelta di Patañjali perché semplicemente noi diciamo che cos’è. Il perché l’abbia chiamato così è il nostro signore che lo sa. Ripeto ci sono dodici occorrenze tutti nel vibhūti pāda, io non le tratto tutte. La cosa che a noi interessa dal punto di vista testuale, sappiamo che siamo di fronte a una questione tecnica, difficile, di un sūtra. Tutti quanti noi sappiamo che i sūtra sono i luoghi della letteratura sanscrita più ostici, perché sono adamantini, sono densissimi, sono diamanti. Bisogna dividere il diamante, e noi lo sappiamo che è un’impresa quasi impossibile. Ci vuole il laser di un esegeta. Il sūtra è un testo sintetico per definizione, quindi cosa vuol dire questo? Che non spreca nemmeno una sillaba. Patañjali non spreca nemmeno una sillaba qua e là. Non mette una cosa a casaccio nemmeno sotto tortura. Che allora in unico libro, il vibhūti pāda, ci sia per dodici volte la stessa parola, ci deve far drizzare le orecchie. Ci dice che è centrale. All’interno di quel contesto la questione è centrale. Saṃyama che cos’è? È una vibhūti, che cos’è una vibhūti? È un effetto che viene in essere, se io ho fatto tutte le cose nel modo corretto per forza arrivo a dhyāna e se, invece di impegnarmi nella contemplazione del bignè, io vado altrove, sulle pizzette, saṃyama non verrà in essere. Invece se io sono monofocalmente diretto solo alla conclusione di questo percorso, che ripeto è fatto di cause ed effetti, di spinte e risultati e frutti, per forza di cose non può che venire in essere saṃyama, una vibhūti. È proprio per questo che lo si pone al di là del libro dei mezzi preliminari, al di là del sādhanā pāda ed è proprio all’inizio del vibhūti pāda. Quindi è proprio una potenzialità, una forza, uno sguardo diverso che emerge in virtù, in grazia di tutto ciò che si è fatto in precedenza. Tenete presente, se io fossi in voi, un consiglio di lettura che do a voi praticanti, di provare a leggere in sinossi, anche nella vostra pratica, il decimo capitolo della Bhagavadgītā che si chiama, fatalità, vibhūti yoga, in cui si mostrano quali sono tutte le potenze che sono intrinseche in Krṣṇa, certo sono immanifeste ma sono, in ogni momento, pronte a diventare atto, pronte a mostrarsi, pronte e diventare estrinseche. Bello leggere ripeto. Patañjali, quando ha scritto vibhūti pāda, certamente Bhagavadgītā capitolo 10 lo sapeva certamente a memoria o ce l’aveva sicuramente sul suo tavolo di lavoro.
Permettetemi, andiamo pian pianino, siamo a ben più di metà, andiamo verso le interpretazioni mie, c’è un po’ di tecnicismo. Il fatto che saṃyama sia una vibhūti, sia un’acquisizione, sia un frutto, sia un risultato, sia il frutto maturo emerso dal fatto che noi pratichiamo yoga, è dimostrato da tutte le volte che successivamente saṃyama viene richiamato in Yogasūtra. Tutte le occorrenze successive di saṃyama, ripeto sono dodici e la prima è 3.4, tutte le undici successive, 16, 17, 21 ecc…fino alla fine del terzo pāda, tutte quante cosa ci richiamano, cosa ci dimostrano? Esattamente il fatto che mediante questo nuovo sguardo, questo risultato, questa capacità di correlare, di far convergere all’unisono dhāraṇā, dhyāna e samādhi, considerarle dunque un unico ensemble, metterle insieme, questa applicazione realizzata di saṃyama causerà ulteriori acquisizioni, ulteriori capacità, ulteriori modi di guardare la realtà, ulteriori siddhi. Qui non entro oltre ma se a qualcuno di voi che ha fatto la parte filosofica della formazione con il sottoscritto, e noi quando abbiamo parlato delle Upaniṣad ci eravamo soffermati su bandhu, su questa sorta di link che esistono tra tutti gli stati dell’essere, tra tutte le cose, tra il macrocosmo e il microcosmo, tra il nostro corpo e l’esterno, tra l’esterno e il nostro corpo, il nostro esterno e il nostro interno, tra lassù e quaggiù. Ecco saṃyama è quella capacità che ci fa vedere questi link. Grazie a queste nuove realizzazioni, a questo nuovo sguardo c’è un impatto diretto. Ricordiamocelo sempre e lo sapete meglio di me, ovviamente. Non stiamo parlando di una cosa che magari a noi sembra un libro scritto, ma è qualcosa che deve essere inoculata nel corpo degli esseri umani, nella cognizione, nel loro sguardo: deve diventare vita! Grazie a queste c’è un impatto efficace, diretto, immediato, effettivo, sullo sguardo, sul modo di vedere. Che cosa vuol dire sul modo di vedere? In senso ampio, come vedi le cose, come concepisci le cose, come ti poni vitalmente, esperienzialmente di fronte al mondo, di fronte a te stesso. Cioè questo sullo sguardo dello yogin. Saṃyama cambia lo sguardo dello yogin. Costui cosa fa? Vede sempre più distintamente penetrando così tanto nelle cose, entrando, essendo ormai padrone di tutto il percorso del samādhi, che è certificato dal medico dei medici che è Patañjali, vede sempre più nitidamente costui come stanno le cose. Cosa vuol dire? È sempre più un tutt’uno con vidyā. Il suo sguardo attraverso il percorso converge, è samyamato, verso un solo obiettivo verso un bersaglio unico. Allora questo gli permette di superare, pian pianino, i vari stadi di incapacità di cogliere come davvero stanno le cose e si spalanca di fronte a lui, si apre una visione nitida, ahh era così! Questa è vidyā, una visione sintetica, unificante che connette tutte le cose separate. Tutte le cose separate cominciano ad avere un senso globale. Questo talvolta, in certi momenti, può balenare nello yogin. Con la conquista di saṃyama diventa un’acquisizione definitiva che si trasferisce, come vi scrivo, definitivamente nello sguardo, nella vita nella carne nel modo di vivere dello yogin. Vedete? Se il senso etimologico di saṃyama è convergenza, questa nuova capacità di correlare, di mettere insieme, di linkare, di unire, di vedere, di ordinare in simbiosi, di mettere tutto al proprio posto, di correlare. Da che cosa deriva? Deriva dal fatto che dhāraṇā, dhyāna e samādhi sono stati spinti, che sono stati generati da tutto ciò che c’era prima, sono finalmente visti come un tutt’uno, un unisono. E questo lo dimostra successivamente 3.5, questo era 3.4. Cosa dice 3.5? Sorge prajñā, una sapienza, una percezione, una prajñā, un’estrema capacità di conoscere. I commentatori la chiamano vivekakhyāti, una conoscenza discriminativa, colma di discernimento. Cos’è il discernimento? Do a tutto il proprio posto, non vedendolo separato ma come tutto correlato, convergente. Tajjayāt prajñālokaḥ col trionfo di esso, cosa vuol dire col trionfo? Col trionfare, con l’acquisire. Quando io trionfo ottengo, ho in tasca qualcosa, è diventato carne e sangue tutto ciò. Col trionfo di esso si ha la luce della conoscenza immediata, prajñālokaḥ. Gettare luce sulle cose, dire “o porca miseria era così!” I sūtra successivi cosa ci mostrano? Che una volta che questo occhio si è installato guardo ovunque con questo occhio, guardo la tisana, i due euro, il cellulare e guardo il mio capo dipartimento, tutto. Guardo la mia pratica, la mia esperienza. Una volta che ho le lenti di saṃyama che sono diventati gli occhi stessi non posso far altro che guardare in quel modo. Questa convergenza è una sintesi unificante, i commentatori ne parleranno molto in ognuna delle successive, delle altre undici occorrenze di saṃyama. C’è però saṃyama e saṃyama, questa è l’unica convergenza, l’unico saṃyama di cui si parla in Yogasūtra? Voi potete dirmi sì è vero. Ed io vi rispondo sì è vero. Di saṃyama se ne parla solo in Yogasūtra con quel significato li solo in vibhūti pāda e i commentatori e la tradizione testuale patañjaliana lavora su quello. Fuori da questa tradizione, saṃyama non vuol dire così. Tenetelo presente però.
Qui comincia l'ultima parte delle mie ultime mie elucubrazioni. Certo che poi sono date da una direi da una grande penetrazione testuale, da un grande studio, da un grande tentativo di risolvere dei problemi. Quindi cerchiamo di scoprire se c'è una sorta di percorso carsico, una sorta di flusso sotterraneo di varie forme di saṃyama. Noi abbiamo detto, e questo deve essere chiaro, che sūtra letteralmente vuol dire filo. Vuol dire filo ed il sūtra è un testo che è fatto di tanti fili. È un testo che ha un'architettura molto raffinata. È una ragnatela. Vi ricordate? Si inserisce il testo come ragnatela in una metafora indoeuropea che va dal Portogallo fino al Bangladesh, permettetemi, passando attraverso tutti i paesi, in cui spessissimo nell'antichità si parlava di testi come ragnatele, strutture ramificate, rizomatiche, come fanno le radici degli alberi che si allargano. Il rizoma appunto. Quindi è una fitta, inestricabile struttura di connessioni, di rimandi interni. Voi lo sapete, Antonio, Willy, Barbara, Wanda, eccetera, lo sanno, vanno da una parte all’altra di Yogasūtra senza un’apparente coerenza, ma in verità, c’è una coerenza perché tutto converge. Ogni parte, infatti, del sūtra è intimamente connessa. Noi abbiamo fisicamente dei numeri che vengono dati dall'editore dagli editori attraverso i secoli 1.1, 1.2, 1.3, 3.4 eccetera. Ognuno di queste perle è connessa attraverso un filo sottile a tutte le altre perle di questa collana che noi chiamiamo sūtra. Vedete già da subito noi abbiamo un obiettivo che ha espresso la carta di identità, ve l’ho detto tante volte, è come profondo rosso. Yogasūtra, cioè si svela alla prima scena, con un'immagine, con un flash si svela già il volto dell'assassino. Solo che noi siamo presi a schiaffi da quello che ci dice e non ce ne rendiamo conto. Il volto dell'assassino si rivelerà solo alla fine con 4.34. Kaivalya è già espresso in Yogasūtra 1.2, 1.3 e in 4.34 avrà il suo coronamento. Vedete, ogni sforzo si volge, converge a tale fine alla spiegazione di 4.34 attraverso varie modalità. L'intero Yogasūtra, ossia il metodo di Patañjali, tende a questa convergenza, converge, è concentrato, è monofocalmente diretto, attraverso vari rivoli di convergenze. Infatti guardate cosa dice un sūtra che viene interpretato in vari modi 3.6. Vedete? dopo tre città 44:24 abbiamo 3.4 saṃyama, 3.5 dice finalmente io ho lo sguardo nitido con saṃyama e poi cosa ci dirà 3.6? Tasya, cosa vuol dire tasya? Di questo saṃyama abbiamo un viniyogaḥ, “un'applicazione”, bhūmiṣu cosa vuol dire bhūmi? Su tanti livelli, su tanti terreni. Cioè l'applicazione di saṃyama non ha confini. Poi i testi ci diranno una cosa, però quello sguardo, come vi dicevo prima, cioè non è solo sull'ombelico, eccetera, ma su ogni momento. Lo yogin non è più yogin sul tappetino: è yogin ovunque. Vedete poi c'è una nozione, infatti nel testo degli Yogasūtra ma come tutti i composti di testi aforistici, chiamiamoli così, di testi sintetici, di testi radicali come i sūtra, appunto, sono considerati, dalla tradizione testuale, dalla tradizione autoctona orale e scritta che sia, non fa differenza per noi, che cosa? Sono considerati, sebbene segmentati in tante frasi più o meno lunghe, sono considerate un'unica grande frase, vedete? Mahāvākya viene chiamata. Ha tanti significati la parola mahā (mahat). Sono considerati un'unica grande frase che ha un unico spirito, un unico collante che la tiene unita. Questa corrente, che ha vari significati, in Yogasūtra secondo me ci sono vari livelli di convergenza, senza richiamare tecnicamente la parola saṃyama, ci sono vari livelli di convergenza, vari saṃyama. Ci sono cioè quei saṃyama e tanti altri saṃyama. Tanti saṃyama ci sono, si ravvisano. Io ve ne ho messe qui tre, ma ne ho ravvisate almeno una decina, stringhe tematiche che man mano svolgimento dall'inizio fino alla fine nei centonovantacinque sūtra, abbiamo sempre di più che cosa? Sempre più raffinato, sempre più preciso, sempre più uno scarto semantico, un incremento semantico, sempre più incisivo e ficcante. Quello che noi abbiamo chiamato filotti, come se giocassimo a biliardo un filotto di birilli. Ok? Un filotto di sūtra che riflettono attraverso le varie fasi di Yogasūtra dei temi specifici. Qui ve ne do alcuni, ma così sempre in modo rustico, è perché se entrassimo ancora più nello specifico, dovremmo essere ben più precisi. Viveka, su viveka abbiamo una serie di sūtra che sono legati al tema viveka. Su samādhi abbiamo un intero pāda in verità, ma ci sono dei sūtra che sono particolarmente precisi. Su kaivalya, abbiamo un intero pāda, certo, ma ci sono alcuni sūtra che sono particolarmente precisi, eccetera, eccetera, eccetera. Sui kleśa ne abbiamo decine, ripeto di questi filotti, di queste stringhe tematiche di sūtra. Infatti, tutti i vari temi convergono in Yogasūtra. Ve l'ho detto varie volte: Yogasūtra è una sorta di imbuto. Che cosa fa l'imbuto? Ciò che è sparso lo concentra, lo convoglia in un'unica direzione. Cioè conduce vedete, dalla distrazione alla concentrazione, ne fa uno dei modi per chiamare che cosa? Saṃyama. Lo troverete anche come concentrazione. Da dispersione a raccoglimento. Tutte le modalità, dal molteplice all'uno, dall'analitico al sintetico, dall’intrinseco all’estrinseco, dall’immanifesto al manifesto. Tutto diventa lampante. Però qui c'è una riflessione che noi possiamo fare. Da dove comincia tutto ciò? Ah, ci si può chiedere questo? In tutti questi punti perché, ripeto, un sūtra è sintetico. Dov'è che comincia il punto focale qual è? Ce ne sono tanti di punti focali. Ma qual è? Dove si ha tra i vari punti, dove si ha lo scarto? Dov'è, diciamolo proprio così. Dov'è che un umano, un essere umano. Perché lo yogin e colui che non è yogin sono tutti i due fatti nella stessa maniera. Sono tutti e due umani, ma dov'è quindi dov'è che si vede lo scarto tra quello che è lo yogin, tra la vita e la vita metodica dello yogin, la vita libera e metodica dello yogin e la vita dell'umano comune che è dominata cioè da ciò che gli viene da fuori. Non domina con ciò che gli viene da dentro, è dominata da istinti e oggetti. La vita di schiavitù di chi? Vedete yogin/bhogin, in India con yoga bhoga fanno un gioco costante con le parole. Il mero fruitore, colui che mangia quello che arriva, eccetera senza dire no oggi non mangio i bignè ripieni di caponata. No me li mangio ripieni di crema chantilly, la caponata la mangio dopo. Ecco il punto focale. Il punto fondamentale, dell'inizio della via, il punto di scarto, il giro di boa noi chiameremmo, qual è? In primis ce lo dice Patañjali. Il punto iniziale è, per il malato, rendersi conto di essere tale, è l'inizio della guarigione. La presa di coscienza di essere malati, cioè la presa di coscienza di essere in preda di essere afflitti, di essere in preda ai kleśa. Questa è la cosa, cioè che io mentre mi guardo il braccio in cancrena che mi sto perdendo, scusatemi, sapete che sono un po' splatter, ogni tanto, che mi cadono i pezzi di carne mi dico oh madonna sarà mica una zanzara? No, è un problema più profondo: mi devo rendere conto che non è stata la zanzara. È un qualcosa di più strutturale. E quindi devo intervenire là sopra. E quindi cerco un metodo, cerco una cura. Ok, la cura quale è? Lo yoga. La terapia si snoda in otto momenti. Ma qual è l'inizio degli otto momenti? È yama. È quello il momento cruciale. Una volta che io mi sono reso conto che porca miseria, devo migliorare la mia vita! Ma com'è che... com'è che basta una email o una roba così del mio, del mio, di uno che vedo una volta ogni sei anni che sta a Napoli, che sta a Trento, che sta che mi manda in che mi manda in palla il cervello. Come è possibile che sia così labile quella struttura? Com’è? Devo migliorare, c’è qualche qualcosa che deve essere messo a posto che non funziona. Devo partire dall'esterno più esterno per entrare sempre di più, è un'analisi una perlustrazione totale. L'inizio della cura è yama. Cioè, è quello lo spartiacque fondamentale, è quello la virata, il colpo di reni. Tra la vita di schiavitù del bhogin, del fruitore, la vita libera con l'occhio disinibito dello yogin. Sono proprio le yama. Ve l'ho detto tante volte. Cosa vuol dire? Redine anche yama. Il primo significato di yama è redini, è ciò con cui noi governiamo i cavalli. Gli diciamo: “vai di qua, vai di là”, ma in primis cosa fanno? Frenano. L'umano non è altro che un destriero, un cavallo che galoppa verso un abisso. Quindi per salvarlo da quell'abisso, verso questa dissoluzione, bisogna mettergli dei morsi delle redini, yama. Che lo fanno frenare, che lo fanno girare, cioè, gli fanno dare un colpo di reni. Lo fanno risalire come un salmone da una schiavitù, da un'incapacità di vedere, da una cecità, verso una chiarezza dello sguardo, verso la libertà. E quali sono questi yama? Non serve certo sia io a dirvelo: ahiṃsā; satya; asteya; brahmacarya e aparigraha. Cioè questi sono yama, le astensioni. Don't do! Se vuoi cominciare a star meglio, basta bignè.... basta bignè. La prima roba da fare, poi se tu continui a mangiarti le pastigliette per dimagrire e poi accanto, diciamo, tanto ho preso la pastiglietta, bevo un secchio di crema chantilly, non funziona. Quindi, don't do. Le astensioni sono: non nuocere, come abilmente Stefano Piano o molto raffinatamente soleva, suole, ancora tradurre, innocenza, non nuocere a chicchessia in qualsiasi modo. Dire la verità, ma è ancora meglio, sono espressi in modo, satya, espresso in modo positivo, ma deve essere intesa in modo negativo, non dire menzogne, non rubare, non compiere attività, qui possa essere eletto ognuno, ogni commentatore, la legge in vari modi. Però io vi dico solo la lettera, non compiere attività sessuale, non trattenere nulla per sé. C'è una specificazione che spesso è difficile da cogliere. Gli yama sono considerati un grande voto... e perché sono considerati? È questo il punto.
E mi avvio pian pianino alla conclusione. Universalmente vedete, cosa vuol dire questo sūtra? Cosa vuol dire questo sūtra, gli yama, cioè le astensioni dice, no, questo non lo posso fare, sono universalmente applicabili perché? Se ho bisogno di qualcosa, se devo fare qualcosa, devo agire su un luogo preciso, devo avere degli strumenti precisi. Se invece devo semplicemente astenermi da qualcosa, io l'astensione posso farla ovunque. Universalmente applicabili ed esse, le astensioni, costituiscono il grande voto. Il grande voto vuol dire che cosa? Vuol dire il colpo di reni, il momento in cui la vita è dell'umano da rimbecillito comincia a vedere come stanno le cose. È questo il grande voto. Solo quando, immaginate l'India, in cui i brahmani, gli kṣatriya e tutte le varie genie là dentro che gli dicono fin da bambino “non devi mangiare questo, non devi mangiare”. Quindi hanno tutta una serie di regole che sono di nascita del luogo di provenienza. Stanno con sessanta gradi all'ombra tutto il giorno, non è che possono mangiare ceci dalla mattina alla sera. Gli spacca, scusate l’espressione, gli spacca il culo. È troppo, troppo caldo. Quindi ci sono tutta una serie di cose, cose da fare, cose da non fare, che sono determinate da che cosa? Da nascita, da regioni di provenienza, da circostanze temporali e da consuetudini culturali. Ecco! Quando vedete, universalmente applicabili, queste astensioni, costituiscono il grande voto solo nel caso in cui non siano così qualificabili, confinabili, in questioni semplicemente di nascita. Oh, ce l'ho dalla nascita, è così, no! È una presa di coscienza, un virare, un giro di boa che è deciso, volontario e in un momento specifico. Quindi questione di nascita, regioni di provenienza, circostanze temporali e consuetudini. Guardate cosa dice un commentatore estremamente interessante. Purtroppo non abbiamo in italiano il libro, abbiamo solo una vecchissima traduzione in inglese, utile ma non così accurata, di questo autore che è proprio yogin, probabilmente era uno saṃnyāsin, Vijñāna Bhikṣu, quindicesimo, sedicesimo secolo, scrive una sorta di compendio a tutta la tradizione patañjaliana. Su tutto quanto scrive e il libricino è breve. Lo scrive a fine della sua vita e l'ultima opera che scrive. Uomo molto raffinato sia culturalmente, immagino anche praticamente. Lui distingue. Fa una distinzione proprio su questa base tra yama e niyama. Lui dice yama in verità non sono soggetti a nessun tipo di limitazione di spazio. Cioè posso, io posso astenermi da qual cosa, quindi cominciare la mia cura ovunque per questo sono mahāvrata e guardate cosa dice: vado abbastanza velocemente perché c'è un punto solo che mi interessa. Tra questi due, tra yama e niyama, tra astensioni e prescrizioni essendo le yama di natura puramente inversiva, retroattiva, no negativa, si esercito senza essere limitate da fattori spaziali o temporali. Per questa ragione vi è stato posto l'appellativo. Gli si dà il nome, che ha un nome e un nome un'etichetta è un nome, un metaforico “grande voto” da chi? Da Patañjali stesso, nessuno li aveva chiamati così finora. Di contro, dall'altra parte, essendo le prescrizioni di natura attrattiva, progressiva il contrario vedete: nivṛtti - mātra - pravṛtti. Nivṛtti e pravṛtti, adesso giochiamo con questi due termini in quanto sono limitate. Se io devo fare qualcosa, agisco in un certo luogo, in un certo spazio, in un certo momento. Sono limitate in termini spaziali, temporali e quant'altro e dunque non hanno forma di grande voto, ecco la differenza secondaria, credo. Che cos'è nivṛtti, che cos'è pravṛtti? Uh, è un grande tema. Cerco solo con i miei strumenti, ovviamente, di mostrarvi, darvi un'indicazione, di mostrarvi un percorso. Pra è come il nostro pro, vuol dire verso. Vṛt, oh, la radice la conosciamo tutti, è quella da cui viene vṛtti che ha, centocinquemila significati, in sanscrito vuol dire “essere, stare, muoversi, volgersi, vorticare, muoversi anche in modo confuso, in modo circolare, rotolare”, etc... Pravṛtti vuol dire propensione, progressione, il volgersi a qualcosa. Se noi dobbiamo dire l'etimologia vuol dire essere aderenti e avere un pathos che è congruente, che va verso qualcosa. Una simpatia è una sorta di inclinazione, un protendersi, un dedicarsi interamente, un disporsi ad agire, a fruire, un conformarsi a qualcosa, cioè, il seguire un flusso di una corrente, cioè, rimanere imprigionati, accondiscendere a ciò che mi viene dal luogo, al momento, alla situazione, alla vita, così come mi è stata proposta. È assecondare l'esistenza, pravṛtti. Nivṛtti, ni cosa vuol dire? Ni-vṛtti con certezza, giù, vuol dire negare anche, un'inversione, un'interruzione e dunque nivṛtti che cos'è? Una ritrattazione, un'inversione è, dunque, se pravṛtti voleva dire simpatia questa vorrà dire antipatia, vuol dire inversione. È una resistenza, un sottrarsi a quella adesione, all'atto, all'oggetto, a quella mera fruizione. Nivṛtti, dunque, è un moto contrario rispetto al flusso che io mi trovo ready made, è uno sforzo che fa da antidoto per contrastare quei vortici dentro i quali mi trovo nella vita, nell’esistenza, dentro e fuori, e mi muovo in senso contrario: ripeto come un salmone, è nivṛtti. È quello il colpo di reni. Gli yama sono di natura nivṛtti, perché, appunto, vanno in controtendenza. È dunque è proprio questa la prospettiva che si acquisisce attraverso e che ha il suo lato fattivo negli yama, è proprio questa la prospettiva differenziale, tra la vita abitudinaria che mi è data semplicemente dall'adesione all'esistenza così com'è, ed invece nivṛtti, che è l'adesione a un nuovo modello, un nuovo modello di osservazione precisa di ciò che sono e ciò è il luogo in cui sono inserito. Per questo gli yama sono mahāvrata. È il vero inizio della fine. È il primo scorcio di libertà come vi scrivo. Perché? Perché sono dominati da questa forza eversiva. Lo yogin è il vero anarchico. È lì che voltiamo le spalle al sistema. Quale sistema? Al sistema che ci vuole tutte come bestie. Questo è il punto. E dunque, per concludere tutto questo, è yama, è proprio yama che conduce direttamente a saṃ-yama. È yama l'inizio della convergenza che avrà come sua punta di diamante saṃyama. L'obiettivo finale di Yogasūtra, ripeto, è già presente all'inizio del metodo, all'inizio di Yogasūtra, all'inizio della terapia. Quindi l'idea centrale è tenuta insieme da questa forza collante, da questa ekāgratā, da questo onepointedness, da questa concentrazione monofocale, che passo dopo passo, momento dopo momento, cosa fa? Porta a saṃyama. Proprio come una freccia, una freccia per quanta strada faccia, per quanto percorso sia costretta ad attraversare, che cosa fa? Evidentemente, la forza cinetica che io ho impresso nella freccia si esaurisce esclusivamente quando penetra nel bersaglio. È univocamente diretta al bersaglio. Non guarda qua e là. Questa è la forza che ci mostra Patañjali, che lo yogin, qualsiasi yogin suo allievo, di qualsiasi epoca, deve avere. Così dulcis in fundo, o in cauda venenum, come dicevano gli antichi, cioè entrare, cosa voglia dire con questo? Entrare nel metodo, entrare in yama, è già garanzia di arrivare a una meta. Basta farlo! Perché siamo in un ambito, che dal punto di vista filosofico si chiama Sāṃkhya-Yoga. Vi ricordate a suo tempo avevamo fatto il convegno Wanda, Antonio, Willy, etc... su che cosa? Su pariṇāma. Ne avevamo discusso in quella occasione di satkāryavāda, che cos'è? La prospettiva sulla causa nel sāṃkhya, nello yoga, si chiama satkāryavāda. Cosa vuol dire? L'effetto è già presente da subito nella causa. Basta che, con una serie di operazioni, venga fatto emergere. Cioè, kaivalya, l'obiettivo finale, è già da subito presente nel metodo, nella pratica. Saṃyama lo vediamo anche dal punto di vista proprio grafico. Saṃyama è già presente in yama. Semplicemente saṃyama è il frutto maturo di yama, è il coronamento, saṃ, vi ricordate? Completezza, perfezione, vuol dire saṃ. Perfetto e completo il frutto, il coronamento. Yama, fa convergere, univocamente, direttamente, concentratamente, verso saṃyama. Quindi, il testo ci mostra che cosa? La convergenza, che è una convergenza non solo degli ultimi tre elementi, dhāraṇā, dhyāna, samādhi, ma di tutti gli aṅga. Tutti i momenti dello yogin, anche ogni minima pratica, ogni minima osservazione dello yogin, è inderogabilmente rivolta a un unico obiettivo, a un'unica e sola meta.
Ed è in quest'ottica, vedete, che praticare il testo è già una pratica. Il testo stesso ci mostra tecnicamente di volgersi a saṃyama. Ricordatevi, Patañjali, è in primis uno yogin non è un autore, è un autore che per sua grazia ci fa dono di un metodo, ci fa dono di qualcosa e quando lui redige, in qualsiasi modo l'abbia fatto, redige Yogasūtra. Lui fa quell'atto in quanto yogin ed è un atto da yogin. Patañjali non smette mai di essere uno yogin, nemmeno anche quando scrive Yogasūtra. E quindi immaginate la forza di questo messaggio. Lì dentro imprime, in quel contesto, in quel diamante, imprime tutta la forza del suo insegnamento, che cos'è? La forza del suo insegnamento, non è altro che il frutto maturo, è l'identikit, è l'istantanea della sua realizzazione interiore che, come lui vede nella sua condizione di coscienza, ecco che dunque, e qui chiudo, è proprio questo. Siamo in un ambito tale, in cui, testo, esercizio, teoria e pratica non hanno più senso di esistere. Sono un tutt'uno. È esattamente questo che gli autori sanscriti ci mostrano in questi ambiti; anche di varie altre tradizioni intellettuali, anche Platone aveva allo stesso modo ecc., ecc… Si tratta di ambiti realizzativi in cui abbiamo teoria e pratica, poiesis e praxis, che sono un unico insieme inscindibile! Se volete saṃyama e yama, sono un unico insieme inscindibile, non c'è più distinzione alla fine. Ed ecco, dunque, tutto questo, tutto questo sforzo, si volge integralmente a far convergere ogni momento della vita dello yogin verso una realizzazione finale, che è esperienza, che è l'immersione nella meta finale. Ecco che qui chiudo davvero.
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